Quinziano prese atto che lusinghe, promesse e minacce non sortivano alcun effetto su quella giovane tanto bella quanto innamorata di Gesù. Decise allora di dare immediato avvio a un processo, contando così di piegarla con la forza. Convocata al palazzo pretorio, Agata entro fiera e umile. Procedeva a passi sicuri verso il suo persecutore e, quando i suoi occhi limpidi incontrarono quelli di Quinziano, li trovarono accesi di rabbia e di desiderio di rivalsa. Agata non era spaventata, sapeva che Io Spirito Santo l’avrebbe assistita e le avrebbe suggerito le parole da dire al tiranno. Ne era certa, perché Gesù stesso lo aveva promesso ai suoi discepoli. Si presentò al proconsole vestita come una schiava, come usavano le vergini consacrate a Dio, e Quinziano volle giocare su questo equivoco per provocarla. “ Non sono una schiava, ma una serva del Re del cielo ”, chiarì subito Agata. “ Sono nata libera da una famiglia nobile, ma la mia maggiore nobiltà deriva dall’essere ancella di Gesù Cristo ”. Le affermazioni di Agata erano taglienti e fiere, degne della semplicità di una vergine e della fermezza di ma martire. “ Tu che ti credi nobile ”, disse Agata a Quinnano, “ sei in realtà schiavo delle tue passioni ”. Questa fu una grave provocazione per lui, padrone di quella terra e garante della religione pagana in Sicilia. “ Dunque, noi che disprezziamo il nome e la servitù di Cristo ”, domandò irritato il proconsole, “ siamo ignobili? ”. Per Agata, che parlava con la forza della fede e illuminata dallo Spirito Santo, era arrivato il momento di accettare la sfida e rilanciò: “ Ignobiltà grande è la vostra: voi siete schiavi delle voluttà, adorate pietre e legni, idoli costruiti da miseri artigiani, strumenti del demonio ”. Quinziano a quelle parole si sentì come un toro ferito. Era incapace di controbattere, non possedeva né le risorse culturali di un oratore, né la saggezza e la semplicità delle risposte ispirate dalla fede che aveva Agata. Gli unici strumenti che conosceva bene e che sapeva usare erano la violenza e le minacce. In questo campo era sicuro di essere il più forte e questi mezzi utilizzò: “ O sacrifichi agli dèi o subirai il martirio ”, minacciò spazientito. Ma, di fronte alla minaccia delle torture, Agata non si lasciò intimorire: “ Vuoi farmi soffrire? ”, lo irrise. “ Da tempo lo aspetto, lo bramo, è la mia più grande gioia ”. Poi, con voce sicura, aggiunse: “ Non adorerò mai le tue divinità. Come potrei adorare una Venere impudica, un Giove adultero o un Mercurio ladro? Ma se tu credi che queste siano vere divinità, ti auguro che tua moglie abbia gli stessi costumi di Venere ”. Queste parole, pesanti come macigni e affilate come lame, per Quinziano furono dure sferzate al suo orgoglio. Seppe reagire soltanto con la violenza e ricambiò con uno schiaffo l’umiliazione appena subita. Per niente avvilita per la percossa, Agata gli rispose: “ Ti ritieni offeso perché ti auguro di assomigliare ai tuoi dèi? Vedi allora che nemmeno tu li stimi? Perché pretendi che siano onorati e punisci chi non vuole adorarli? ”. Erano parole inconfutabili, ma Quinziano non volle arrendersi e ordinò che la giovane fosse rinchiusa in carcere.